“[…] Il termine ‘ferita’ viene oggi preferito da molti psichiatri, psicologi e psicoterapeuti rispetto al termine trauma, che alcuni studiosi usano ancora. […] Il termine trauma, proveniente dal greco trauma che significa ferita, lesione, è utilizzato da lungo tempo in medicina e chirurgia per designare una ferita e lacerazione. Freud nel descrivere un trauma poneva l’attenzione soprattutto sulle emozioni penose e le rappresentazioni conseguenti che l’individuo provava in determinate situazioni avverse. Il trauma era considerato dunque un qualcosa di soggettivo con il rischio, come ha scritto Didier Anzieu “di arrivare ad una definizione tautologica: un trauma sarebbe, per un dato soggetto, uno stato psichico che lui ha esperito come traumatizzante”.
Una ferita può essere definita come una condizione qualsiasi che ci provoca uno sconvolgimento emotivo profondo e duraturo, che può dipendere da fattori esterni o interni, può essere provocata da altri o da alcune circostanze della vita, può costruire una condizione permanente o può essere transitoria, cessando con il tempo di essere un peso per noi. Anche se generalmente noi abbiamo la sensazione che le nostre ferite siano ingiuste ed immotivate, tuttavia nel corso della nostra evoluzione esse possono essere vissute in una maniera completamente diversa.
Il concetto di ferita pone più l’accento sulle relazioni interpersonali, cioè sulla sofferenza che l’individuo vive e che hanno avuto origine in una serie di situazioni che vedono coinvolte altre persone che, per la loro storia o una serie di circostanze o problematiche psicosociali o culturali, sono stare incapaci di offrire alla persona le cure e le attenzioni necessarie per un adeguato e corretto sviluppo della sua personalità. […] Ma come fanno rilevare ripetutamente Firman e Gila, il bambino, per il suo sviluppo psicofisico, ha necessità di una connessione empatica con un centro unificatore esterno. E’ proprio la mancanza o l’inadeguatezza di questo centro unificatore estero che è all’origine di molte nostre ferite.
[…] il bambino ha bisogno, non di una madre perfetta, ma di una madre “sufficientemente buona “, cioè capace di vederlo, non con gli occhi rivolti alle proprie attese o paure, ma nella sua individualità ed unicità, permettendogli così di rispecchiarsi in lei. Se questo rispecchiamento non avviene “il bambino non troverà se stesso, ma le esigenze della madre. Rimarrà senza specchio e per tutta la vita continuerà invano a cercarlo” (A. Miller, Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero Sé)”
(Virgilio Niccolai, Rivista di Psicosintesi Terapeutica – Marzo-settembre 2010)